Fare una scelta è il viaggio, non la meta.
Qui è dove faccio una scelta, combattendo con la sindrome dell’impostore e senza avere la minima idea di dove potrebbe portarmi. Ma ho capito che l’importante non è il risultato, ma la direzione.
E sono contento della scelta che ho fatto
Nemmeno un rimorso, nemmeno un rimpianto
Sì, sono contento, che bella scoperta
Non serve nient'altro che fare una scelta
Caparezza – La scelta
Il momento in cui scrivo è la sera di una domenica che in un certo senso è andata sprecata. In un altro senso, è stata fondamentale.
È stata la classica domenica di ottobre, quel momento dell’anno in cui si sente ancora la fatica del passaggio tra una stagione e l’altra. Dalla vitalità frenetica, dalla compagnia costante dell’estate, alla voglia di una maggiore intimità dell’autunno., Ritorni più che scoperte, sagre e città vicine più che mare e mete lontante.
Ma è anche quel periodo in cui c’è ancora il bel tempo dell’estate, ma l’aria è fresca come d’autunno e puoi decidere che stagione vivere.
Sarei potuto andare al mare, a godermi il sole e l’arietta. The best of both worlds. Oppure fare qualcosa di più autunnale. C’era una escursione in programma, per dirne una.
Però io non ho fatto nessuna delle due cose.
Peccato, perché forse era l’ultima occasione dell’anno, con un sole splendente, non troppa gente in giro e un’aria che dà al cielo un azzurro più tenue, meno crudele e più rassicurante.
Non è tanto l’aver rinunciato alla compagnia, che mi pesa. Non siamo più in estate e peraltro, negli ultimi tempi, ho imparato a godere anche dei momenti in cui ero con me stesso. Mi pesa aver rinunciato all’esperienza.
Ma ho fatto una scelta. E ogni scelta comporta una rinuncia.
La scelta che ho fatto è stata quella di lavorare. Di impegnarmi un una cosa che penso sia più importante, ma questo non significa che sia certo di aver fatto la scelta giusta o che questa che mi porterà a qualcosa di buono.
Una decina di giorni fa, mi hanno chiesto di tenere una lezione su come scrivere newsletter per un evento, il Digifest (A proposito, se volete potete prendere il vostro biglietto scontato qui, usando la password digifest2024), che porta sul palco persone competenti in questo o quel campo del digitale, per insegnare qualcosa che hanno imparato, magari un approccio nuovo, vincente. E già immagino la vostra perplessità. “E tu che c’entri in tutto questo? Non ti sarai montato la testa? Questa è una newsletter minuscola e non ti rende certo un’autorità in materia”.
E lo so, ragazze e ragazzi. La penso come voi. Infatti si è subito presentata, con una prontezza militare, la sindrome dell’impostore, come mi ha fatto notare Cristiano Carriero, a cui ho chiesto consiglio, visto che è parecchio più autorevole di me in materia. Io non mi sento affatto in grado di parlare di newsletter. O di scrittura. Ma è anche vero che è qualcosa a cui tengo.
Per cui, di nuovo, ho fatto una scelta. Ho accettato.

Non è stata una scelta facile. E ne sono ancora terrorizzato. Ma allora, perché ho accettato?
È per via di quella nuova parte di me. Quella che sta cominciando pian piano, con discrezione ma in modo sempre più deciso, a dar sentire la sua voce.
Tutto questo mentre la mia mente continua a fare il suo one-mind-show strillando scenari catastrofici e buttandomi fango addosso.
Questa nuova parte di me mi ha suggerito che ho sempre affrontato qualunque scelta come un dilemma irrisolvibile. E che forse è ora di cambiare approccio.
Il punto è che ho sempre pensato che le scelte siano o giuste o sbagliate. Se hai la fortuna o – meglio ancora – la capacità di capire quale sia quella giusta, sarai felice. Altrimenti, sarà la rovina. Insomma, ho sempre associato la scelta al risultato, che deve essere la felicità.
Adesso, comincio a pensare che non sia proprio così.
Nella mia vita, mi sono spesso paralizzato davanti a una scelta. Quale sarebbe stata quella giusta? Continuare con quel lavoro o lasciarlo? Partire o no? Scegliere quel percorso o quell’altro?
Qui non sto bene, ma lì? Cosa c’è, lì? Come starò?
E, per non sbagliare, rimanevo fermo. Ché è sempre meglio stare male nella situazione che conosci, piuttosto che scommettere su una possibile soddisfazione affrontando l’ignoto. Sembra illogico (e in un certo senso lo è), ma è così che funziona la nostra mente.
Questo non significa che non ci provassi, a fare una scelta. Solo che o rimanevo fermo, o facevo decidere agli altri. Solo che gli altri non possono darci una risposta. Sceglierebbero secondo il loro metro e con la leggerezza di chi, tanto, non deve subire le conseguenze.
Ma del resto, non è che avrebbero potuto fare di meglio. Nessuno può garantirti che una scelta sia giusta. Che non andrai a sbattere.
E allora, che si fa?
Amiche e amici miei, si sceglie. Si sceglie nonostante l’incertezza. Anzi, si sceglie proprio perché non sappiamo come può andare.
Ottenere un certo risultato non dipende solo da noi. Però possiamo scegliere verso cosa muoverci. Quello sì, che è in nostro potere.
Detta in un altro modo, non possiamo scegliere la destinazione. Ma possiamo scegliere la direzione verso cui muoverci.
Questo significa che, nel viaggio, possiamo inciampare, prendere una storta, scatafasciarci.
Ma questa cosa non è così importante. Non quanto crediamo. In un certo senso, è pure inevitabile. Significa vivere.
Ma come si fa a decidere la direzione? Nel caso dello speech, ho combattuto con la paura, ma ho deciso di farlo perché per me significa provare a fare un altro passo verso quel cammino iniziato con Oltremare. Ho scelto di mettere su questa cosa che state leggendo perché per me era importante ricominciare a scrivere. Adesso, voglio provare a farla conoscere di più. A ricominciare anche a lavorare, come scrittore.
Ed è importante, per me, anche questa newsletter. Che non sarà niente di che, ma significa molto in questo momento.
Magari andrà male. Forse farò una figuraccia. Chissà, il pubblico potrebbe annoiarsi o reputarmi uno scemo. La mia sindrome dell’impostore mi sta sussurrando queste cose carine da giorni.
Ma salirò lo stesso sul palco.
Perché ho fatto una scelta. Le conseguenze non le conosco e non le posso controllare. Posso però controllare alcune cose, come scegliere di passare il weekend a prepararmi, invece di godere di questo autunno con suggestioni d’estate.
Questo mi ricorda un’altra cosa importante per me, la letteratura greca. Penso ai Persiani di Eschilo. I greci affrontano l’invasore non perché erano certi della vittoria, anzi: l’esercito persiano era più numeroso e meglio equipaggiato. Ma i greci scelgono di affrontarli perché c’era in ballo qualcosa di importante per loro:
«O figli degli Elleni, avanti! Liberate la patria, liberate i figli e le spose e i templi degli dèi aviti e le tombe degli antenati! Ora per tutto si combatte!»
(Peraltro, dell’episodio ne parla anche Seneca nelle Lettere a Lucilio).
E io, per cosa sto combattendo? Per rimettermi in piedi, ma anche per l’atto stesso di scrivere. Io non so che senso abbia scrivere qui e, spero presto, altrove. Spesso è pure faticoso.
Eppure, scrivo.
Chissà, magari mi porterà a qualcosa. Oppure no. Ma intanto, scelgo di scrivere nonostante la fatica. Scelgo di salire su quel palco nonostante la paura. Scelgo di navigare nella nebbia.
Scelgo anche di chiudere questo numero qui, ché cominciare con Caparezza e finire con Eschilo è già impegnativo. Ciao ciao!
In bocca al lupo Alessandro… sono sicura che sarà un’esperienza bellissima (parteciperei volentieri, se fossi un po’ più vicina 😅)!
Questa puntata mi tocca da vicino perché sto vivendo anche io una situazione molto simile al lavoro: buttati, approfitta di questa occasione e divertiti mentre prepari l’incontro… io pagherei oro per avere un’occasione simile✨
Tanto tifo da qui, e grazie sempre per la tua sincerità nel raccontarti.
Grazie Alessia, ti considererò presente col pensiero ❤️