Ferite aperte
Qui è dove scrivo un numero con le impressioni che ho ricevuto al Marketers' World, dove c'è poco dell'evento e tanto di riflessioni personali. Che pensavate di trovare qua? Sì, sono agitato
È faticosissimo scrivere questo pezzo.
Gli ultimi giorni sono stati belli pieni e faticosi, soprattutto dal punto di vista emotivo. Ecco perché esce di martedì, ammesso e non concesso che riesca davvero a farlo uscire, questo numero. Forse non sarà buono come agli altri, ma è comunque necessario che io lo scriva.
Tutto nasce da un weekend, quello passato, in cui sono andato a Rimini per un evento dedicato al mondo del marketing digitale. O meglio: al più grosso evento dedicato al marketing digitale e, in un certo senso, al freelancing.
Ci sono andato perché Laura Nasto, che era con me, mi ha fatto notare che sarebbe potuta essere una buona occasione per cambiare le prospettive sul mio lavoro, intese sia come visione che come possibilità future. Si tratta di un evento del quale, chi ci va, ne parla come di un momento ricco di entusiasmo, belle emozioni e gratitudine.
Per me non è stato proprio così. È stato fondamentale perché ha aperto delle ferite.
Provo a mettere ordine alle cose, ma non sarà facile. Però, se c’è un modo per riuscirci, per me è quello della scrittura. Scrivo per mettere ordine alle cose che ho dentro e ho scoperto che ha iniziato così anche un bravo scrittore che ho conosciuto lì, Matteo Bortolotti.
Sin dall’inizio, mi sono sentito escluso. A vedere persone che si ritrovavano, altre che erano piene di entusiasmo e voglia di crescere e mettersi in gioco. Io le ho odiate dal primo istante, queste persone. Odiate.
Sin dall’inizio, qualcosa dentro di me mi ha detto che non era quella la mia strada. Che lì non ero voluto.
Vedevo persone felici di rivedersi e pensavo di essere fuori posto.
Sentivo negli altri tanta speranza e voglia di fare, fiducia in sé stessi e nel futuro e pensavo di essere sbagliato.
Sentivo storie di cadute e risalite e quindi successo. Sentivo gli applausi e l’approvazione per chi le raccontava sul palco. E mi sentivo di avere il mondo contro.
Non l’ho capito subito, ma erano ferite che si aprivano. I cui margini erano sentimenti opposti che si allontanavano facendole sanguinare.
La giornata inizia. Sul palco c’è gente, una specie di mini rappresentazione teatrale piuttosto allegorica sul marketing e qualcosa si muove dentro di me. Non per la rappresentazione, ma per il palco. Mi sento dentro una specie di bolla accogliente, calore e orgoglio dentro. Io voglio stare sul palco. Bene, chiaro. No.
Perché la giornata è iniziata così, ma si è conclusa con una sessione di yoga che poi insomma, con lo yoga aveva poco a che fare, ma era più una cosa legata al “liberare le energie” e quindi, alla fine, c’era una sorta di rituale liberatorio che prevedeva musica tamarrissima e bello sfrenato. Bellissimo, eh?
Io sono andato nel panico. Questa cosa mi avrebbe reso visibile, mi avrebbe costretto a esprimermi con il mio corpo, del quale non ho molta stima diciamo. La mattina sentivo il richiamo di un palco, il pomeriggio volevo nascondermi.
Prima ferita.
Seconda giornata, seconda ferita. Questa ha i margini frastagliati e la forma delle parole che mi dicevo di volta in volta. Si susseguono vari speech. C’era chi faceva un po’ di storytelling sulla sua persona creando un mito personale acclamato dalla folla. E dentro di me mi dicevo: non ci riuscirò mai. Un altro parlava di come aveva faticato, ma che grazie all’aiuto dei suoi compagni e alla capacità di ignorare i limiti imposti da altri era arrivato al successo. E dentro di me dicevo: per me è troppo tardi. Un terzo parlava di come “chi sa scrivere ha un superpotere”. E mi sono detto io non so scrivere.
Che poi non è vero. Ma sentivo il bisogno di essere duro con me stesso. Era come se nel buio della sala covassi cattiverie nei miei confronti. Volevo demolirmi.
Era una tentazione irresistibile. Un po’ questa cosa qua.
L’ho detto anche a Paolo Borzacchiello, che ha parlato proprio di come le parole che ci diciamo cambiano la nostra prospettiva sul mondo. Gli ho detto che, proprio mentre sentivo queste cose, mi dicevo cose brutte brutte. Lui mi ha detto che è meglio così, perché significa che avevo capito ed era una reazione normale. Speriamo.
La sera, a cena, esco con persone molto lontane da me per background e status di carriera. Dice Laura (io ho avuto una percezione diversa), che alcune di queste mostravano interesse per quello che facessi e che avessi da dire, mentre io avevo alzato un muro. C’è da dire una cosa: per tutti questi giorni, aspettavo con terrore la domanda “ma tu di cosa ti occupi?”. Non sapevo cosa dire. Mi vergognavo. “Sono un copywriter che sta ricominciando a scrivere dopo un periodo in cui non riusciva più"? Mi rendevo conto di vergognarmi e di dare una risposta confusa e vaga. Sentivo che le persone mi prendevano per un idiota. Quindi mi sono isolato quando ho capito che non ero al centro dell’attenzione e non avevo il successo (leggasi: il fatturato) che avevano loro.
Mi dico cose brutte ma voglio stare al centro dell’attenzione. Seconda ferita.
Arriviamo alla terza giornata, quella dove tutto crollato, lasciando però spazio libero, forse, a qualcosa di nuovo.
Il punto è che in questi giorni si è parlato molto di valori, del perché le persone erano lì, di cos’era il successo. È un evento dedicato a chi sente che il proprio lavoro non è soddisfacente perché sembra essere un compromesso pagato con la libertà individuale. E quindi vorrebbe che il proprio mestiere regalasse non solo denaro, ma anche tempo da gestire come si vuole. Che è quello che voglio io, ma mi manca la parte in cui credo nel mio talento e nelle energie. Ma insomma, la giornata parte con l’idea precisa di chi sono e dove voglio arrivare. A un lavoro che mi renda libero, visibile, che mi faccia migliorare e mi connetta agli altri attraverso le storie. Peccato che non creda di poterci arrivare. Ne parlavo al bar con Laura ed Elisa (qui su Substack come Voli Pindarici).
Loro erano entusiaste dell’evento e Laura molto arrabbiata da alcune mie considerazioni sulla serata precedente, quella in cui mi ero isolato. Per entrambe le occasioni, la serata e l’evento, davo giudizi molto netti e sprezzanti che in realtà stavo rivolgendo a me stesso: tutti sono di successo tranne me. Tutti sono connessi tranne me. Tutti hanno possibilità, tranne me.
Stavo ragionando per assoluti. Ma, come ogni nerd come me sa,
Il punto è che stavo abbracciando il mio lato oscuro. Si è manifestato nel momento che è arrivato sul palco un tizio che ha cominciato a far fare yoga della risata e altre pratiche pseudo-meditative. Ora, io ritengo queste cose una baggianata per occidentali e in più odio qualsiasi mia espressione corporea, quindi mi sono alzato e me ne sono andato subito.
Ma mi ha dato ancora più fastidio vedere un sacco di persone commuoversi praticamente a comando, al culmine di una serie di strategie di stampo comportamentista che portavano le persone presenti a lacrimare ed emozionarsi perché di fatto non avevano scelta, avendo subito un condizionamento basato su emozioni primarie, leva sull’ansia sociale e sul rilassamento del sistema parasimpatico, tutto presentato invece come un rituale liberatorio e quasi magico a beneficio di chi lo conduceva e del suo editore che ha fatto i big money allo stand dei libri dopo l’esperienza. Io questa cosa l’ho odiata per svariate ragioni. Vedere lui che era in grado di manipolare le persone. Le persone che rispondevano pavlovianamente al copione.
Ma soprattutto, quel senso di connessione che c’era tra di loro.
Alla fine dell’evento poi, il tizio è venuto dritto verso di me. Non so perché, forse aveva letto bene il mio linguaggio del corpo di chiusura totale. Gli ho detto una cosa che faceva emergere alla luce del sole il lato oscuro (sì, è voluta): “so che quello che hai fatto là dentro è una manipolazione. Non approvo quello che hai fatto. Ma l’apprezzo perché voglio impararla anche io. Io voglio manipolare le persone e prendermi quello che mi hanno tolto (non so esattamente cosa mi hanno tolto, ma mi veniva da dire così)”. Lui, forse un po’ spiazzato per il mio tono pacato o per quello che gli ho detto, ha risposto “bene”. E poi ha aggiunto: “però non macchiare la persona bella che sei”. Posto che so benissimo che non era un complimento reale, perché non aveva idea di chi fossi”, gli ho risposto “non c’è niente di bello in me”. Di nuovo, volevo distruggere qualcosa di bello. Volevo abbracciare il lato oscuro.
Tornando a casa, Monica (la trovate qui su Substack) mi dice: “vuoi parlare di questa enorme ferita? Perché ce l’hai”.
E insomma, nego un po’ e poi scoppio. Mi sentivo tagliato fuori dal mondo. Che nessuno mi voleva. Che odiavo il mondo perché il mondo odiava me. Che non avevo futuro.
Laura e Monica mi hanno detto che no, non è vero che sono solo. Nessuno di noi lo è. Ma io vedevo solo chi, nella mia testa, mi escludeva. Non vedevo Laura e Monica. Non vedevo chi mi ha incontrato e mi ha detto “che bello è stato conoscerti”.
La terza ferita: sentirmi sconnesso col mondo, ma non volermici connettere.
Sono parti di me in conflitto, che riesco finalmente a vedere e riconoscere. Per questo, la sera stessa, ho finito per accettare, forse per stanchezza, che c’è una parte di me che si vergogna di ciò che sono e del momento che vivo. Una che vuole salire sul palco e una che vuole nascondersi. Una che vuole crescere, l’altra che vuole rassegnarsi. Una che vuole connettersi con gli altri, l’altra che vuole dichiarare guerra al mondo.
A cena ho conosciuto tante persone. Mi hanno detto che ho carisma, che sono l’incontro più interessante del weekend, che dovrei aprirmi un canale YouTube (no, non lo farò mai).
Quella sera, ho deciso di accettare le due parti e di provare a dare voce a quella che di solito sta più zitta. Il mattino dopo, ho deciso anche di vedere il mio presente non solo come difficile, ma anche fertile di speranze.
Chissà, forse sto facendo così tanta fatica a scrivere perché le ferite aperte si stanno rimarginando.
Più leggo storie personali e più mi rendo conto che lottiamo tutti con gli stessi problemi e paure, seppur in forma leggermente diversa. La cosa assurda è che non esistono nemmeno al di fuori della nostra testa, eppure tutti quanti le generiamo in maniera molto simile.
Mi fa piacere vedere che vi siate incontrati di persona! Non so perché ma sento che Substack Italia ha un grande futuro davanti… e credo che questi incontri, oltre al numero crescente di newsletters e scrittori siano dei piccoli segnali in questo senso.
E mi aggiungo alla fila di quelli che te lo stanno dicendo: non sei solo. Nessuno sa nulla, e l’unica cosa che possiamo fare è andare avanti. Tutto il resto sono solo fisime che ci creiamo da soli, speranze o supposizioni :)
Sono un boomer suonato ma ho provato un affratellamento istintivo in tutto ciò che hai scritto. Non sei solo. Troverai la tua strada. Augh, ho detto